Appunti su alcune opere di Orhan Pamuk

Un nostro contemporaneo riscrive i brani - via via letti nell'originale - d'un manoscritto antico da lui trafugato. Ne risulta la storia d'un italiano fatto prigioniero per mare dai turchi e venduto, dopo un periodo di prigionia, come schiavo a un intellettuale con tendenze scientifiche. I due, schiavo e padrone, si assomigliano fisicamente. Il padrone nel corso dei due decenni abbondanti di convivenza con lo schiavo fa carriera alla corte del Sultano come astrologo, narratore di storie, scienziato e ingegnere militare. Ciò si riflette nella vita dello schiavo somigliante al padrone, anche lui portato alle scienze e al pensiero. I due, quindi, intercambiabilmente fanno carriera presso il Sultano. Il padrone, in una campagna bellica in Europa durante la quale si sperimenta una sua realizzazione balistica si stanca e si scoraggia, perciò abbandona lo schiavo mettendosi al suo posto e intraprendendo un viaggio nella patria di lui, l'Italia. Il gesto del padrone trasforma lo schiavo. Costui fa carriera come astrologo eccetera. Si tratta de Il castello bianco (1985), seconda traduzione di uno dei romanzi di Orhan Pamuk, essendo la prima, se non sbaglio, intitolata Roccalba. Comunque sia, questo è il primo libro che io abbia letto di Pamuk. Ne avevo in casa, non acquistati da me, cinque. L'ho scelto perché era quello più smilzo. Per diffidenza. La storia che ho riassunto è nichilistica in fatto di politica, epistemologia, psicologia. Un po' di maniera. Il tema evidente del "doppio" rimanda l'autore, in una postfazione non inevitabile, a nomi classici. Ma egli non dichiara chi è il vero maestro al posto del quale lui si è messo con quest'opera: Borges. 

Il secondo libro di Pamuk che ho letto è Il libro nero (1990). Un uomo trova tornando a casa un breve lettera di addio della moglie. Non sapremo che cosa ci sia scritto. Alla assai numerosa cerchia familiare il marito cela il fatto e si mette a cercare, nell'immensa Istanbul, tracce della fuggitiva. Non ne trova in senso proprio, in compenso ogni cosa diviene traccia, intanto che la narrazione è interrotta, un capitolo sì, uno no, da articoli d'una rubrica che un famoso giornalista pubblica su un quotidiano locale. Costui ha una parentela sia con la fuggitiva sia con il marito di lei, a sua volta cugino della donna. Si ritiene che sia tra il giornalista e la donna da trovare il cuore della faccenda. Trascurando la sua professione di avvocato il marito insegue le tracce del giornalista, anche lui sparito, si installa in uno degli appartamenti di lui e rovista nel materiale immenso dell'archivio del padrone di casa. Riceve telefonate di aficionados del giornalista che lo scambiano per quest'ultimo. Verso la fine del libro, telefona un marito che racconta una storia analoga a quella patita dall'avvocato, credendolo il giornalista. Nel corso della lettura ho scritto: a me pare che nel racconto ci siano troppi ingredienti**, che sia un contenitore di fascinose ambasce turche, anzi istanbulesi, che faticano a stare insieme. E che troppi siano i significati, i rimandi espliciti e impliciti. Reali o inventati. Lo scambio tra l'avvocato e il giornalista ricorda quello tra lo schiavo e il padrone ne Il castello bianco. Penso di nuovo a un Borges, ma non algido, bensì marquezianamente caldo. Pamuk raccoglie amici per i turchi e per la città di Istanbul. L'avvocato, oramai metamorfosizzato nel giornalista sparito, scopre la moglie e il giornalista uccisi per strada - c'è da credere da quel marito che ha telefonato imbufalito all'avvocato credendolo il giornalista. Ma perché la moglie, Ruia, si trovava con Celal, il giornalista? Per fargli da scrivana, per raccoglierne le memorie prima che lui le perdesse. Situazione del resto anticipata da una delle tante storie, quella del principe erede al trono che detta a uno scrivano le sue impressioni di viaggio lungo la via che dovrebbe portarlo ad "essere se stesso". In quest'edizione c'è una postfazione a cura di Pamuk scritta nel 2000. Anch'essa merita un pietoso velo. 

Il terzo libro che ho letto, Il mio nome è rosso (1998), è una storia ambientata nella Turchia del secolo sedicesimo. Gelosie e paure inerenti la crisi della miniatura tradizionale sotto l'incombere dell'arte europea, quindi della prospettiva e della somiglianza ritrattistica, del realismo, blasfemo in quanto idolatra e costitutivamente nemico dell'Islam, danno adito all'uccisione di un miniaturista e d'un maestro di tale arte, sospettati di essere fautori delle novità. S'impiega l'intero romanzo per conoscere l'assassino, un altro miniaturista. Non manca del condimento erotico. Grosso lavoro di Pamuk, grosso sforzo, accostamento al remoto, ma, di nuovo, eccesso di mercanzia esposta. Generosità? L'autore, qui ricordandomi Il nome della rosa, oscilla con coraggio sopra la dimensione del "pacco". Senza caderci dentro. Molto interessante è la questione della prospettiva in pittura in rapporto alla religione islamica. La non prospettiva rispecchierebbe lo sguardo di Allah; la prospettiva quello di un cane in stradaQueste brevi note, scritte in fretta su fogli di carta allo scopo di fermare i "fatti" contenuti nei libri, indicano che una preoccupazione decisiva di Pamuk è diciamo così la tensione oriente-occidente vista da Istanbul. Sia chiaro, ho cercato con un certo successo di non saper niente sull'uomo Pamuk, in quanto non m'importa di conoscere che cosa ha fatto, detto, per chi "vota" eccetera, se sta dalla parte del "velo" eccetera; sfortunatamente ricordo invece di aver sfiorato anni fa con lo sguardo un titolo affibbiato da Repubblica a un'intervista da lui rilasciata - in fatto di "libertà e diritti". Non mi sarebbe importato di sapere alcunché neppure su altri scrittori che ho incontrato nei decenni: peccato che qualche volta fossero tanto importanti che era impossibile ignorare i fatti della loro vita. 

Sul quarto libro di Pamuk che ho letto, Il signor Cevdet e i suoi figli  (1982), avrò anche scritto la solita scheda veloce, ma ora non la ritrovo, ragione per cui andrò a memoria. Il Novecento a Istanbul è il protagonista del romanzo, scritto quando l'autore era un ragazzo o poco meno. Se avessi letto I Buddenbrook di Mann potrei azzardare che questo lungo e noioso romanzo turco richiama quello sicuramente noioso e lungo di Mann. Pamuk lavora alla storia di una famiglia di borghesi commercianti che prospera in parallelo con le trasformazioni della Turchia, soprattutto con la fine della monarchia e l'inizio della repubblica (1923). Ci s'impratichisce della megalopoli, s'imparano i nomi di certi suoi quartieri ricordando di averne letto ne Il libro nero. Uno dice: qui non succede niente, no, errore: cambia il mondo e siamo noi che non ce ne accorgiamo. 

L'ultimo Pamuk che avevo in casa è Il museo dell'innocenza (2008). Perché "dell'innocenza" confesso di non averlo capito**. Un ricco imprenditore sui trent'anni s'invaghisce di una bellissima diciottenne. Si accoppiano ogni giorno per un mese e mezzo con il pretesto delle ripetizioni a titolo gratuito di matematica (mettendo in atto erotico, afferma il narratore, ciò che dei ragazzini ignari giù in cortile si urlano di ribaldo nel giocare a pallone - questa è carina); poi, dal momento che lui è già fidanzato e in vista delle nozze, la diciottenne sparisce. Il ricco imprenditore trascorre la sua vita bevendo raki e tentando di riconquistarsi le grazie della fanciulla, ex fanciulla, donna e così via. Infine, dopo essere stato innumerevoli volte a cena da lei (raki e genitori inclusi), raggiunge il suo scopo. Peccato che quasi subito una mattana suicidaria della bella, unitamente alla di lei imperizia automobilistica, ne causino la morte. Allora il ricco imprenditore che negli anni ha seguitato ad accumulare oggetti appartenenti a lei o a lei riferibili, apre un museo dove espone al pubblico l'interessante collezione. La storia di amorosa pena ricorda Proust (Charles Swann con Odette; il narratore con Albertine) ma anche Buzzati (Un amore), Nabokov (Lolita), Marquez (L'amore ai tempi del colera), ed è convincente. Molto. Brillante l'idea d'intercalare la narrazione con brevi accenni al museo di cui sopra. Per cui è come se uno c'illustrasse i contenuti di una collezione raccontandone la storia. Non brillante il pasticcio "postmoderno" finale tra il narratore, cioè l'imprenditore innamorato, e lo scrittore, Pamuk, che si confondono: come ne Il castello bianco e come ne Il libro nero. Soluzioni di identità. Il fatto che abbia letto uno dopo l'altro questi cinque libri di Pamuk dovrebbe indicarmi che mi hanno preso. Però non convinto del tutto. Sicuramente una buona compagnia, il Pamuk: come Marquez, Marai, Simenon. L'inverno è lungo.

Il presente post è ricavato da un mio scritto di diversi anni fa. Nel frattempo ho letto anche La donna dai capelli rossi (2016). Un liceale la cui famiglia è impoverita si impiega d'estate con un mastro pozzaiolo. Le pagine che raccontano dello scavo anni ottanta del pozzo sono le uniche degne. Il mastro pozzaiolo è un brav'uomo, ma un pochino brusco, il liceale ne provoca distrattamente il ferimento e lo abbandona in fondo allo scavo senza sapere in quali condizioni si trovi. Una vigliaccata che il liceale, con gli anni divenuto un fortunato immobiliarista, si porterà nella coscienza per tutta la breve vita. Durante la lettura, resa pesante dai riferimenti colti, freudiani e non freudiani,  di Pamuk, si apprende che "la donna dai capelli rossi" usa tingerseli. Mai fidarsi! Scherzi a parte: l'intrigo è "edipico"... sto cercando di venire al punto: il liceale nelle pause dello scavo si scava anche una trentenne che lo ha incantato ... ne nascerà un bambino, ma all'insaputa del liceale, intanto scappato dalla mamma con la coda tra le gambe ... 

(Gennaio 2024) Di recente ho letto La casa del silenzio (1983), interessante soprattutto per la costruzione: i vari soggetti si esprimono in prima persona rivelando poco a poco non tanto se stessi ma l'insieme, la storia, se non la Storia turca. La modernizzazione occidentalizzante della Turchia, tema forte in Pamuk, costa cara in termini di tragedie collettive e familiari. Si segnalano qui un medico fanatico della scienza e della ragione che spende la vita per scrivere una enciclopedia con lo scopo di emancipare il popolo turco dalle superstizioni; sua moglie, conservatrice e arcigna, immortale direi, come le tradizioni, religiose o meno ... personaggi tutti letterariamente gustosi ...

(19 dello stesso mese) Neve è, come spesso capita con Pamuk, un lungo romanzo (2002) che insegna agli ignari a riflettere sulla tensione (ai tempi, oggi non so) tra "patria" e "velo", cioè tra "progressismo" occidentalizzante e tradizione islamica. Un poeta di qualche successo si reca nell'est estremo del Paese, a Kars, con due scopi: scrivere, per un giornale di Istanbul, sul fenomeno dei suicidi di ragazze che rifiutano di fare a meno del velo e stringere una relazione amorosa con una incantatrice del luogo. Il poeta s'immerge, intanto che senza tregua nevica, negli ambienti della città, dove stanno per celebrarsi elezioni di tipo amministrativo, e sbanda non poco tra le sue convinzioni di laico e il fascino dell'integralismo islamico. Intavola piuttosto bene la desiderata relazione con l'incantatrice di cui sopra, addirittura progetta di tornare insieme a lei in Germania, dove è vissuto per anni come esule; beve raki e scrive non so più se diciotto o diciannove poesie - si sa che l'amore talvolta fa da suggeritore ai poeti. Sfortunatamente uno dei diversi colpi di Stato caratterizzanti la vita politica turca, direi quello del 1997, radicalizza la tensione tra "patria" e "velo" e confonde le idee del poeta, il quale si compromette sia con i golpisti sia con gli integralisti. Non solo, informato della relazione amorosa esistita tra un fascinoso capo integralista e l'incantatrice, ahi ahi, si produce in una porcata colossale: denuncia il rivale alle forze speciali, che lo fanno fuori. Logicamente la bellissima rimane disgustata e il povero poeta mogio mogio se ne torna a Istanbul da solo. Sarà dopo diversi anni, in Germania, fatto fuori anche lui. Da un gruppo di integralisti? Comunque sia Pamuk entra sempre di più, intanto che si procede verso la fine del romanzo, nel racconto ... anche lui, "amico del poeta" va a Kars, anche lui s'infila nelle relazioni cittadine, anche lui s'innamora della bella ... anche lui torna a Istanbul da solo... l'autore qui come altrove si fa personaggio ...

(29 dello stesso mese)  Da ultimo ho letto Le notti della peste, che è uscito nel 2021 dunque in piena "pandemia" covid, ma non si tratta di un instant book dal momento che conta circa 700 pagine. Un libro così non s'improvvisa, del resto la peste è e fu una cosa seria. Non è noioso come il celebre mattoncino di Camus, il quale inventò un'epidemia di peste a Orano (Algeria) per esplicitamente parlar d'altro, non saprei però di che cosa. Pamuk va oltre e s'inventa un'isola nel Mediterraneo orientale dove si manifesta una grave epidemia, nel 1901: Mingher, si chiama. Dicevo che non è noioso come il romanzo di Camus, ma ugualmente si pena ad arrivare in fondo. A che cosa mira il romanzo?  Una storica nostra contemporanea cura l'edizione delle lettere scritte da una principessa ottomana alla sorella, ne prepara la prefazione che tuttavia si trasforma nel romanzo che abbiamo sotto gli occhi. Questa la finzione numero uno. La numero due è l'isola di Mengher, che in italiano ricorda sinistra l'isola del menga ... colpita dalla pestilenza e sconvolta dall'inefficienza delle autorità ottomane l'isola si distacca dal dominio dell'impero e si avvia, tra un colpo di Stato e l'altro, all'indipendenza, intanto che la principessa ottomana, capitata a Mengher con il marito epidemiologo, scrive le sue lettere: tranquillizziamoci, non sono riportate in appendice ... Ho l'impressione che Pamuk si sia costruito Mengher per trattare più maneggevolmente la storia della fine dell'impero ottomano, avvenuta dopo il termine della prima guerra mondiale e culminata nel 1923 con la proclamazione della repubblica. 

* I pezzi di bravura del rubrichista intercalati nel racconto costituiscono un altro libro incastrato - a forza - in quello che leggiamo.

** Una rilettura mi ha chiarito che il rapporto del collezionista con gli oggetti  contenuti nel museo sarebbe paragonabile a quello, detto innocente, che i bambini usano avere con certi loro oggetti di gioco. Senza contare che, come in altri edifici di Istanbul, la denominazione corrisponderebbe al contrario del vero (v. capitolo 7, "Palazzo della pietà"). Come qualcuno sa il MDI esiste a Istanbul, o esisteva. 


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